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Alisea

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Susanna Martucci Fortuna, fondatrice di Alisea, ha trasformato un momento di crisi in opportunità. Ha creato una filiera di professionisti tutti italiani – da ingegneri a designer e artigiani evoluti, per dare una vita dignitosa a scarti industriali.

Cristina: Oggi vi raccontiamo il lavoro di una donna che ha trasformato una crisi in opportunità. Stava perdendo il l’azienda, e interrogandosi sul da farsi, le tornò in mente una conversazione sentita sul riciclo e si chiese come poter dare una vita dignitosa a scarti industriali, che nel suo distretto di Vicenza abbondano. Per dare concretezza alla sua idea, mise insieme una filiera tutta italiana di ingegneri, designer e artigiani evoluti. Andiamo a conoscerla e a scoprire che cosa fa. Buongiorno Susanna, raccontaci cosa abbiamo davanti.

Susanna Martucci: Qua si parla di grafite da noi, questi sono elettrodi in grafite e lo scarto inevitabile della produzione degli elettrodi di grafite è questa polvere, che viene recuperata dagli impianti di aerazione delle fabbriche. Noi recuperiamo questa polvere e abbiamo creato un nuovo materiale. Questo è un granulo che è fatto con l’80% di questo scarto. Questo nuovo materiale, che viene da economia circolare, ci ha dato accesso ad un processo produttivo innovativo per la produzione di una matita, che non usa legno e non usa colla per quanto riguardo l’aggancio della gomma, ma soprattutto chi la usa consuma 15 grammi di polvere di grafite, portandole via dalla discarica. Solo con lei, risparmiamo 60.000 alberi all’anno, perché molti magari non pensano che il legno delle matite tradizionali non è altro che packaging della grafite che è fragile e sporca le mani.

Cristina: Con la grafite hai fatto altro?

Susanna Martucci: Si chiaramente ci siamo innamorati di questo materiale che in questo altro caso partiamo sempre da polvere di grafite ma viene bagnato con l’acqua. Questo ci ha dato accesso ad un nuovo processo produttivo per la tintura dei tessuti. I ragazzi riescono a tingere vari materiali, la lana, denim, seta o il cotone organico ma in maniera totalmente atossica. Adesso vi porto nel mondo che parla di plastica riciclata, tante cose si possono fare: righelli per la scuola, custodie per i vinili, che vengono tutte da bottiglie post-consumo quindi da raccolta differenziata.

Cristina: Vedete quanto nasce da fantasia e determinazione? Questi puzzle per bambini sono recuperati da uno stand fieristico, così queste borse. Non abbiamo il tempo di raccontarvelo ma questo è sempre grafite e sughero riciclato. Questi sono sacchi di caffè trasformati insieme anche a sfridi della produzione del pellame. Pensate che l’attività di Susanna adempie a ben 6 dei 17 SDG, gli obiettivi di sviluppo sostenibile, in particolare il 8, 9, 10, 12, 15, e 17. Occhio al futuro!

In onda il 29-2-2020

Bambù – l’acciaio vegetale

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Con più di 1.642 specie e 10.000 utilizzi, il bambù si aggiudica straordinari primati. Rigenera terreni poveri, tollera grande freddo e caldo e l’ONU la considera una famiglia di piante strategica, riconoscendo che adempie a ben 6 dei 17 SDG: 1, 7, 11, 12, 13, 15. L’architetto Mauricio Cardenas ci racconta quali sono i benefici di costruire col bambù.

Cristina: Oggi incontriamo un architetto che ha progettato la più grande struttura nel nord della Cina in bambù, una pianta considerata strategica dall’ONU e che adempie a 6 dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, o SDG. Grazie alle lunghe radici, che pescano acqua in profondità, il bambù può essere piantato in terreni poveri, inadatti all’agricoltura, ed è capace di rigenerarli. La fitta e perenne superficie fogliare, fa sì che un bosco di bambù sequestri fino a 17 tonnellate di carbonio per ettaro all’anno. Tollera grande freddo e grande caldo, cresce velocemente e ogni parte della pianta, persino gli scarti, sono utili per qualche cosa. Pensate, con 1642 specie, ci sono più di 10,000 utilizzi riconosciuti – dall’architettura al cibo, il tessile e la cosmesi.  Le opportunità di lavoro sono particolarmente interessanti per le donne in agricoltura, perché il bambù è leggero. L’associazione mondiale INBAR stima che questa pianta dalle mille specie potrebbe diventare fonte di reddito per 50 milioni di persone nel mondo! Architetto, qual è la tua esperienza con l’acciaio vegetale?

Mauricio Cardenas: Sono cresciuta in Colombia, quindi sin da piccolo ho avuto modo di conoscere le virtù di questa pianta – giocavamo tra le canne di bambù, facevamo piccole costruzioni. Attraversavamo il fiume con un ponte, ricordo molto bene, sempre in bambù.. poi durante gli studi di architettura l’ho un po’ dimenticato, sarò sincero, fino alla tesi di laurea. L’ho ripreso e fino ad oggi lavoro grazie alle opportunità che ho in giro per il mondo facendo costruzioni in bambù.

Cristina: Com’è stata l’esperienza in Cina?

Mauricio Cardenas: Il padiglione INBAR è l’ultimo progetto che abbiamo realizzato è la struttura di bambù più grande del nord della Cina. È utilizzato molto poco il cemento, il minimo possibile. Coperture verdi, senza aria condizionata all’interno del padiglione si sta benissimo, perché abbiamo uno strato di terra umida per cui anche nelle temperature più alte di Pechino, che sono veramente estreme, si sta molto bene nel padiglione, non c’è stato nessun tipo di sconforto, anzi è stato molto apprezzato.

Cristina: E come siamo messi in Italia? Ci sono degli incentivi?

Mauricio Cardenas: Ci sono incentivi in Italia per l’agricoltura, per la costruzione ancora no. Possiamo immaginare in modo molto poetico, immaginare il bambù, portare dalla foresta al cantiere. Tenendo conto che il bambù cresce molto rapidamente, in soli tre anni è maturo e pronto per essere utilizzato in costruzione. Mentre il legno ha bisogno di 15-20 anche più anni per essere maturo e utilizzato per la costruzione.

Cristina: Una casa che torna alla terra, che bella idea. Occhio al futuro!

In onda il 25-2-2020

Econyl, il filato di nylon rigenerato

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L’industria tessile nel suo insieme è tra i più grandi inquinatori. Però, c’è chi sta invertendo questo impatto da negativo a positivo: Aquafil, con il suo filato Econyl, produce fibre da rifiuti scarti e nuovi materiali attraverso azioni concrete di rispetto per l’economia la società e l’ambiente, lungo tutta la filiera.

Cristina: Sappiamo che l’industria tessile nel suo insieme è tra i più grandi inquinatori. Però, c’è chi sta invertendo l’impatto da negativo a positivo producendo fibre tessili da scarti, rifiuti e nuovi materiali. In quest’azienda le fabbriche sono alimentate al 100% da energie rinnovabili, si usa acqua a ciclo chiuso in ogni fase di lavorazione. Sono stati avviati protocolli ambientali lungo tutta la filiera, e attivati progetti educativi in azienda per i dipendenti e nelle scuole. Si fa ricerca su nuovi materiali da biomassa, ogni anno si riducono le emissioni di gas serra, si promuovono programmi per la tutela dei mari e per tutti i prodotti si fa l’analisi del ciclo di vita. Queste azioni, nel loro insieme, adempiono alle indicazioni di ben 8 dei 17 SDG – gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU! Per ogni 10.000 tonnellate di materia prima da processo di riciclo si risparmiano 70.000 barili di petrolio e l’equivalente di 57.100 tonnellate di CO2.
Oggi vi mostriamo come vengono trasformate le reti da pesca, insieme ad altri rifiuti di nylon. Nel 2018 sono stati recuperati 78 tonnellate da ONG che operano in tutta Europa. Una volta pulite, le reti vengono trasformate chimicamente, poi il liquido diventa polimero, e il polimero si trasforma in filo. Il risultato è che sempre più filati derivano da un processo di rigenerazione. Per diventare tappeti, occhiali, borse, abiti, costumi da bagno.
Dottor Bonazzi, si può immaginare di rispondere alla richiesta di mercato di nylon solo con materiali di recupero e di riciclo?

Giulio Bonazzi: No, purtroppo no, neanche si potesse recuperare tutto il nylon, non sarebbe mai sufficiente per garantire le necessità future. Oltre a ciò è importante capire che riciclare ha un suo impatto ambientale, noi cerchiamo di farlo al meglio, ma è importante capire come si ricicla e come ridurre al massimo l’impatto durante il ciclo.

Cristina: Che cosa significa per lei innovare? Come cittadino e come imprenditore?

Giulio Bonazzi: Innovare per me significa smettere qualcosa di vecchio per fare qualcosa di nuovo. Ad esempio bisogna ricordarsi che prima di riciclare bisogna ridurre le materie prime, riusare e poi riciclare.

Cristina: Avete già pronta una nuova famiglia di materiali?

Giulio Bonazzi: Si l’abbiamo, vogliamo produrre il nylon da fonti rinnovabili ossia da biomasse, anzi abbiamo già prodotto i primi chili.

Cristina: Che differenza c’è tra il filo derivato dal petrolio, da riciclo e da biomassa?

Giulio Bonazzi: Nessuna, i tre prodotti sono perfettamente identici ma fa una grande differenza per l’ambiente. È un bell’esempio di economia circolare.

Cristina: Grazie Dottor Bonazzi. Occhio al futuro!

In onda il 18-1-2020

Quanto inquina la tua crema solare?

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La crema solare che utilizziamo si sta accumulando in mare con conseguenze disastrose. Si stima che una media di 10.000 tonnellate di protezione solare venga rilasciata da bagnanti, subacquei e snorkelers e un ulteriore inquinamento della protezione solare danneggia le aree costiere a causa delle acque reflue che alla fine sfociano nei mari.

Organismi sensibili come pesci giovani e invertebrati e fino al 10% delle barriere coralline del mondo potrebbe essere minacciato da sostanze chimiche, in particolare 4, presenti nei comuni filtri solari, e anche bassissime concentrazioni sono pericolose: una singola goccia per 6,5 piscine olimpioniche!

Questi sono quelli da cercare ed evitare:
L’ossibenzone (Benzophenone-3, BP-3) è presente in oltre 3500 marchi di creme solari in tutto il mondo. È un filtro chimico che interrompe la riproduzione dei coralli, provoca lo sbiancamento e danneggia il suo DNA.
Il butylparaben, il conservante più comune, provoca anche lo sbiancamento.
L’ottinoxato (etilesilmetossicinnamato) è un altro agente filtrante che ha dimostrato di causare lo sbiancamento dei coralli.
La canfora 4-metilbenzilidene (4MBC) è un’altra sostanza chimica da evitare. È consentito in Europa e in Canada, non negli Stati Uniti o in Giappone.

L’Haereticus Environmental Laboratory ricerca gli effetti dei filtri solari e di altri ingredienti per la cura personale sulle barriere coralline e su altri ecosistemi e animali selvatici. Il loro elenco di ingredienti che considerano inquinanti ambientali comprende:

Qualsiasi forma di sfera o perline di microplastica.
Eventuali nanoparticelle come ossido di zinco o biossido di titanio. Questi però sono ingredienti amichevoli quando non nano.
Oxybenzone
Octinoxate
Canfora di 4-metilbenzilidene
Octocrylene
Acido para-aminobenzoico (PABA)
Methylparaben
Ethylparaben
Propylparaben
Butylparaben
Benzilparaben
Triclosan

Questa è una certificazioni da cercare se vuoi proteggere la tua pelle e gli ecosistemi marini: Protect Land + Sea 

effecorta, negozio sfuso

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Nel 2009 per Occhio allo Spreco, eravamo andati a Capannori, in provincia di Lucca, per raccontare una realtà pioniera – il negozio Effecorta, che vendeva prodotti locali e sfusi, ossia privi di imballaggi. Nei 10 anni trascorsi da allora, Effecorta ha aperto a Milano nel quartiere di Affori e abbiamo deciso di buttarci l’occhio.

Renato Plati, uno dei fondatori di Effecorta, dice che l’interesse al suo modello è tanto, le richieste sono addirittura quasi quotidiane e arrivano da tutta Italia. La filiera corta è importante, è nel nome stesso. Facilitano quello che è l’incontro tra il produttore e il consumatore alla ricerca un prodotto genuino e locale – il loro fulcro è l’acquisto diretto dai produttori, selezionati nel raggio di 70 km dal negozio. Alcuni prodotti, come l’olio e gli agrumi, arrivano dal centro e sud Italia, ma mantengono un rapporto diretto con chi li produce. Per Renato, filiera corta significa un solo passaggio dal produttore al consumatore finale.

“Al tempo del servizio abbiamo raggiunto oltre 400 contatti” ci racconta, “e abbiamo organizzato tanti seminari per cui le persone venivano, e potevano informasi sul modello. Pochi sono riusciti a trasformare l’idea in un negozio vero e proprio, la maggioranza si sono scontrate con la realtà economica. Quando ragioniamo su una configurazione di un negozio di 100-120 metri suggeriamo sempre un budget minimo dagli 80-100.000 euro, per far fronte a quelli che possono essere gli imprevisti dei primi anni. La possibilità di avere accesso al credito costituisce un fattore determinante per lo sviluppo e riteniamo che esistano molti bandi sia a livello regionale, che europeo e ci auspichiamo che venga fuori qualcosa anche per noi per quello che potrebbe essere lo spostamento in una zona più centrale, in uno o più punti. A Milano potremmo tranquillamente aprire in ogni zona. Un contributo all’affitto sarebbe ottimale perché è una delle voci spesa più pesanti.”

Speriamo presto di vedere negozi così in ogni quartiere.

Bellezza coerente

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Come avere cura del nostro corpo e della pelle senza danneggiare il pianeta?

Non è facile. Recentemente mi sono fidata della reputazione di un brand che usavo tempo fa e ho acquistato alcune creme per il viso. Poi ho guardato l'inci.

  • Il biossido di titanio è utitlizzato come filtro protettivo per i raggi UVB. Ci sono studi che dimostrano che nanoparticelle >35 nm di biossido di titanio non rivestito possono essere dannose per gli animali marini. Le dimensioni estremamente ridotte di queste particelle generano uno stress ossidativo sotto la luce UV, potenzialmente causando danni cellulari ad organismi sensibili come coralli, pesci giovani e invertebrati.
  • La paraffina liquida è un olio incolore e inodore, che ha origini minerali ed è composto da un mix di idrocarburi C15-C40 ottenuti dalla distillazione del petrolio. Quando utilizzata sulla cute forma un film lipidico. Per via della loro natura oleosa, però, i prodotti contenenti paraffina impediscono un’adeguata traspirazione.

Nel 2010 avevo intervistato l’eco-dermatologa Riccarda Serri, che aveva fondato con Pucci Romano l’associazione SkinEco, con il desiderio di fare luce sull’impatto ambientale e l’interazione con la pelle dei prodotti cosmetici comunemente usati. La normativa europea vigente non considera ancora la biodegradabilità delle sostanze utilizzate nei cosmetici, e solo in Europa, ogni giorno, vengono immesse nell’ambiente 5.100 tonnellate di prodotti cosmetici consumati. Purtroppo Riccarda non è più con noi ma resta il suo prezioso insegnamento, che mi sono ripassata, scoprendo che quando avrò finito le confezioni dei prodotti che ho acquistato, tornerò a cercare unguenti privi di sostanze indicate da Riccarda.

Ecco un estratto dal mio libro Occhio allo Spreco

Dottoressa Serri, quali sono gli ingredienti più comuni per i quali merita avere un occhio di riguardo?

Petrolatum e paraffina sono derivati dal petrolio, la natura non è in grado di digerirli e per la pelle c’è di meglio. La vaselina, usata molto nei prodotti per l’infanzia, è occlusiva e disturba la microbiologia cutanea; il silicone, e tutti gli ingredienti che terminano in –oni e –ani, non nutrono la pelle bensì danno bellezza al prodotto.”
Una goccia di fondotinta addensato col silicone sul lavandino è molto difficile da pulire. Così è per il viso, e a causa dell’uso crescente di sostanze che mimano nel prodotto le caratteristiche che si vorrebbero trasferire alla pelle: l’effetto liscio, vellutato e morbido, è aumentata anche l’offerta di prodotti esfolianti, maschere, gommage.
“L’ultimo strato della nostra pelle è composta da corneoliti, o cellule senza nucleo. Vengono chiamate cellule morte, ma morte non sono, in quanto svolgono un’importante funzione metabolica e, conclude Serri, “ci consigliano di pulire la pelle come se fosse ceramica di Capodimonte, poi serve lo scrub per la pulizia a fondo. A quel punto la pelle si irrita e occorre la crema restitutiva. S’innesca così un ciclo vizioso”.

Cosa preferire?

“E’ meglio un unico detergente, delicato ma efficace, da togliere con una salvietta di puro cotone imbevuta d’acqua tiepida. Esistono anche panni in microfibra per il viso che puliscono senza detergenti.”

E cosa evitare?

“Disinfettanti quali Triclosan, molto dannosi per l’ambiente, che penetrano negli strati più profondi dell’epidermide e sono stati addirittura trovati nel latte materno. Il motto di una cosmesi sana per la pelle e per l’ambiente è: QB, quanto basta, e di qualità, come per l’alimentazione.”

Nel fare ricerca di prodotti che usano meno plastica (o non la usano proprio) ho trovato una maggiore coerenza con il contenuto. Ad esempio, sto provando un dentifricio in pastiglie, confezionato nel vetro e l’esperienza è molto interessante. E un altro in pasta a base di olio di cocco. Invece, un altro marchio al quale sono fedele, che produce un dentifricio senza ingredienti minacciosi quali coloranti, conservanti, disinfettanti e SLS fluoro, viene distribuito in un tubo di plastica ma vorrei sapere di che polimero è per capire se è riciclabile.

Se cerchiamo prodotti naturali non possiamo fidarci degli slogan sulla confezione – ma alla crema fantastica in plastica ci sono alternative?

Per maggiori informazioni sulle sostanze chimiche da evitare, è utile consultare il sito della direttiva REACH. Non è necessario diventare “paranoici ambientali” ma è importante essere informati. Nel giugno 2007 il Parlamento Europeo ha deliberato la direttiva REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) con l’obiettivo di studiare meglio i materiali altamente sospetti e regolamentarne l’uso. Si stima che in circolazione ce ne siano circa 900 altamente preoccupanti e REACH ne sta identificando altre 600 pericolose. Sulla base di studi e prelievi si stima che in media ogni essere umano abbia dentro al corpo diverse centinaia di sostanze chimiche dannose per l’organismo.
Attualmente è molto costoso introdurre nuove sostanze sul mercato, per questo le industrie preferiscono usare quelle già esistenti che però non sono mai state adeguatamente testate. Le cavie siamo noi.

Nel 1981 le sostanze chimiche in uso erano 100.106 e da quella data ne sono state introdotte solo 4.300 di cui, si sospetta, il 70% contiene almeno un ingrediente malsano.

Elencate nella categoria 1 e 2 dell’indice REACH sono le sostanze abbreviate come CMR: cancerogene, mutagene (danneggiano i geni) e tossiche per il sistema riproduttivo.
“Altamente pericolose” sono anche le sostanze “persistenti”, quelle “tossiche bio-accumulative” (PBT) e quelle “molto persistenti” e “molto bio-accumulative” (vPvBs).
Molto preoccupanti sono anche gli inibitori ormonali (interferenti endocrini), ritenuti responsabili di varie alterazioni ormonali come i tumori ormono-dipendenti (mammella, prostata, utero), infertilità, pubertà o menopausa precoci, malformazioni fetali ed ermafroditismo (sia negli uomini che negli animali).

Per approfondire gli effetti dei prodotti sul corpo: EWG.org e safecosmetics.org
C’è una nuova app che si chiama Thinkdirty che proverò.

Italia Che Cambia

By ecology, sdg 17

Daniel Tarozzi, fondatore di Italia Che Cambia e fellow della rete Ashoka, ha raccontato il viaggio in camper che lo ha portato a conoscere, e mappare, gli agenti di cambiamento dal sud al nord dell’Italia.

Cristina: Mentre l’Italia fatica a fare sistema, per fortuna ci sono giovani che s’impegnano a contrastare questo problema. Daniel si muove su e giù per il nostro paese in camper, per cercare talenti da valorizzare e mapparli. Daniel, com’è nato questo tuo mestiere?

Daniel Tarozzi: Guarda tutto è nato da un viaggio lungo quasi un anno alla ricerca di persona che si assumevano la responsabilità della propria vita senza aspettare che qualcuno lo faccia al loro posto. Nel 2012 sono partito in questo camper, con l’idea di andare in giro per l’Italia, pensando di stare in giro per poche settimane. In realtà ho scoperto centinaia, migliaia di esperienze concrete di cambiamento in tutte le regioni italiane. Quello che doveva essere un viaggio finalizzato a scrivere un libro è diventato un progetto di racconto di questa Italia Che Cambia che va avanti da oltre 7 anni. Pensa che solo nel mio primo viaggio ne incontrai oltre 450, sulla nostra mappa ci sono 2.000 progetti mappati ma sono molte, molte di più quelle che costellano il nostro paese.

Cristina: Che metodologia seguite?

Daniel Tarozzi: Ci arrivano segnalazioni, il passaparola che è straordinario, ogni persona che incontro mi segnala altri 5-10 progetti, ovviamente il web siamo prevalentemente sul digitale, abbiamo i nostri canali social e il nostro sito. Da questa esperienza sono concrete, non sono solo astratte, progetti che funzionano e che negli anni migliorano.

Cristina: Che visione avete dell’Italia nel 2040?

Daniel Tarozzi: Abbiamo raccolto oltre 500 azioni che possiamo realizzare tutti, a partire da oggi, per cambiare l’ambiente, per cambiare l’economia, per creare lavoro, senza aspettare nessun governo, azioni che possiamo fare adesso.

Cristina: In che modo si creano collaborazioni tra le realtà che mappate?

Daniel Tarozzi: Il nostro lavoro è un lavoro sull’immaginario, la prima cosa che cerchiamo di fare è di proporre esempi positivi ispirandoci un po’ allo slogan “vietato non copiare”. La prima connessione che siamo riusciti a creare è quella tra la domanda di cambiamento e l’offerta di cambiamento, ovvero sono un cittadino, un professionista, una persona insoddisfatta, voglio andare a vivere fuori città, creare lavoro, voglio fare qualcosa nella mia vita. Vado a trovare chi lo ha già fatto e poi cerco person con cui farlo anch’io, per cui si ci sono tanti borghi abbandonati che si stanno ripopolando. Ci sono tantissimi altri che stanno creando progetti agricoli, ma anche imprenditoriali, digitali, fab lab. Quindi natura, città, davvero un’Italia in fermento e straordinaria in tutti i campi.

Cristina: C’è una Regione che meglio di altre fa sistema?

Daniel Tarozzi: Per fare qualche esempio concreto da nord a sud mi vengono in mente ad esempio, circuiti di monete complementari in Sardegna che stanno mettendo l’economia in circolo davvero facendo girare milioni di euro di economia che non avrebbe girato senza questo strumento. Oppure ancora dei piccoli produttori che in Sicilia si sono messi a cooperare con i cosiddetti competitor, cooperando insieme vendendo ai gruppo di acquisto del centro-nord hanno visto tutti aumentare i fatturati. La cooperazione che vince contro la competizione. E ancora, tantissimi giovani, c’è questa tema dell’agricoltura. L’agricoltura, quella che davvero valorizza i nostri prodotti. è in una crescita incredibile, quindi quando si parla di crisi bisogna stare attenti. C’è la crisi di un mondo, di un settore. Io racconto l’Italia dal 2012 e in questi anni di crisi piena c’è tutta un’Italia, che senza mai negare le difficoltà perché saremmo utopici, che sta realizzando progetti che funzionano anche a livello economico.

Cristina: Sembrerà tanto banale ma viviamo in un paese meraviglioso, facciamolo funzionare meglio. Occhio al futuro

In onda 11-5-2019

L’impronta idrica del cibo

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Avete mai pensato alla quantità di acqua che consumate in un giorno? Non solo l’acqua che bevete o che utilizzate in casa. Anche il cibo che mangiamo ha un’impronta idrica, si chiama acqua virtuale e spesso rappresenta più della metà del nostro consumo idrico giornaliero.
Durante l’esposizione di Broken Nature a La Triennale di Milano, ci sarà un Wonderwater Café con un menù interamente tradotto in termini di impronta idrica per ogni piatto!

Cristina: Molti di noi sono bravi a non sprecare acqua in casa, ma raramente sappiamo quanta ne consumiamo in maniera indiretta, ad esempio l’acqua che serve per produrre il nostro cibo. Wonderwater Café è un progetto itinerante che giunge al ristorante della Triennale di Milano durante l’esposizione di Broken Nature. Frutto di una collaborazione tra scienziati e designer, si traduce in un menù che illustra l’impronta idrica di ogni piatto.

Jane Withers: Non abbiamo idea delle quantità di acqua che servono per produrre il cibo. Noi mostriamo le differenze tra: fagioli coltivati in Kenya, dove irrigare le piante può voler dire sottrarre risorse idriche dalle comunità locali, e verdure stagionali e locali, irrigate con acqua piovana. Capiamo il valore dell’acqua quando, ad esempio, durante la siccità in California due anni fa, i prezzi delle mandorle sono andati alle stelle. Noi mostriamo questi sistemi idrici invisibili.

Cristina: Lei trova che i fatti scientifici debbano essere adattati per raggiungere un grande pubblico?

Jane Withers: Si, penso di sì. Noi traduciamo i dati in un linguaggio che le persone possano capire. Penso che trovare sul tavolo, al ristorante, mentre stai scegliendo cosa fare, un menu che indichi l’impronta idrica di ogni piatto, faccia la differenza. Quanto influisce sulla scelta? Se leggendo vedo che per fare la pizza marinara ha consumato 290 litri e quella con la salsiccia piccante 960 litri? Sono numeri impressionanti.

Cristina: Il primo WonderWater cafè risale al 2011. In pochi anni, insieme al progetto è cresciuta la consapevolezza del problema.

Jane Withers: I nostri partner accademici del King’s College di Londra, hanno lavorato per capire ogni ingrediente: da dove è venuto, dov’è stato acquistato e così via. Adesso sembra esserci più trasparenza, ma penso che sia interessante quanto nel 2011, sembrava tutto molto astratto, mentre ora c’è un crescente senso di urgenza. Ci stiamo rendendo conto che una delle cose più importanti che possiamo fare è di passare da una dieta carnivora ad una vegetariana o “flexitariana” – più consapevole. Le differenze sono importanti:  più di 5000 litri al giorno per una dieta a base di carne contro 2600 litri. Sono differenze palpabili. C’è crescente interesse e consapevolezza.

Cristina: Le informazioni ci sono, la gente ha sempre più voglia di sapere cosa consuma e che impatto ha. Quindi se siete ristoratori se comunque portate, al mondo, cibo in un qualche modo, offrite questa opportunità di conoscenza perché è molto importante. Occhio al futuro!

In onda 4-5-2019

Stefano Mancuso e l’intelligenza diffusa delle piante

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Prof. Stefano Mancuso, autore e Direttore del LINV – International Laboratory of Plant Neurobiology, parla dell’intelligenza del regno vegetale – un modello a rete. Internet ne è un esempio!

Cristina: Sovente pensiamo che per il successo dobbiamo scalare una vetta, diventare il capo di qualche cosa per avere influenza, ma il mondo vegetale ci insegna ben altro. Ci insegna che l’intelligenza si può diffondere a macchia d’olio e perché? In che modo?

Stefano Mancuso: Tutto quello che hai detto è vero, perché noi ci ispiriamo al modello animale. È fatto con un cervello che governa degli organi, quando noi replichiamo questo modello nelle nostre organizzazioni, quindi c’è un capo e poi una gerarchia sotto, nasce una burocrazia che serve a trasportare gli ordini. Il modello vegetale, paradossalmente, è molto più moderno rispetto a quello animale perché è un modello a rete, diffuso. La pianta, in altre parole, distribuisce sull’intero corpo funzioni che gli animali concentrano negli organi. Immaginiamo un’organizzazione di questo tipo, queste organizzazioni molto moderne, internet stesso è fatta in questa maniera, non ha un comando centrale o le monete elettroniche di cui si parla tanto oggi. Il bitcoin e tutte queste cose sono organizzazioni decentralizzate e come tali funzionano benissimo.

Cristina: E quali saranno gli sviluppi strategici che potranno beneficiare di questo modello?

Stefano Mancuso: Potremmo costruire qualunque tipo di organizzazione ispirandoci al mondo vegetale. C’è una multinazionale americana che si chiama Morningstar che funziona a questa maniera, cioè non ha manager. È completamente distribuita e funziona benissimo. Il modo con cui abbiamo guardato alla società, nella nostra storia, non è l’unico. Il 99% della vita di questo pianeta utilizza un sistema diverso.

Cristina: Perché ha senso imitare delle creature viventi che apparentemente sono ferme?

Stefano Mancuso: Le piante vedono, le piante sentono, le piante dormono, le piante sono in grado di comunicare, di avere relazioni sociali.

Cristina: In che modo possiamo imitare il comportamento delle piante?

Stefano Mancuso: Le piante producono risorse, gli animali le consumano, quindi imitiamo le piante nel produrre e consumare la minor quantità di risorse possibili. Trasformiamo le nostre organizzazioni, non è scritto da nessuna parte che per forza debbano essere piramidali. Trasformiamole in distribuite e ne trarremmo dei vantaggi in pochissimo tempo.

Cristina: Sta a noi decidere se vogliamo comportarci come animali o come piante. Occhio al futuro

In onda 27-4-2019

Broken Nature – la Triennale di Paola Antonelli

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Paola Antonelli è la più grande fonte d’ispirazione per colmare il divario tra ciò che sappiamo e come viviamo. Broken Nature presenta una moltitudine di idee e soluzioni per diventare cittadini rigenerativi del nostro bel Pianeta. La speranza è che visitiate la Triennale tante volte, ma per chi non verrà a Milano entro l’1 settembre, brokennature.org è una fonte da consultare (anche per chi visiterà la mostra!). Grazie Paola per la tua visione e per la tenacia.

Cristina: Siamo alla Triennale di Milano, Broken Nature, un mostra internazionale e interdisciplinare che durerà fino al 1 di Settembre, che indaga il nostro rapporto con i sistemi naturali, la società umana, con il modo di vivere, produrre e consumare. É curata da una grande italiana, Paola Antonelli, che per l’occasione  è stata prestata dal MoMA di New York.  L’essenza di Broken Nature, cosa vuoi che gli spettatori si portino a casa?

Paola Antonelli: Vorrei che si portassero a casa il fatto che per essere responsabili, per vivere in modo sostenibile, per attivare questo atteggiamento ricostituente, non bisogna sacrificare l’estetica o il piacere, la sensualità o l’eleganza.

Cristina: Spesso gli individui si sentono troppo piccoli per poter avere un impatto. Tu come la vedi?

Paola: Non la vedo così, perché non possiamo contare soltanto sui governi, le istituzioni e arrenderci al nostro destino. Abbiamo un potere enorme che proviene anche dai social media, una persona poi diventa un gruppo, una tribù, una comunità e dopo di che se i governi vogliono avere qualsiasi efficacia devono seguire anche quello che vuole il pubblico.

Cristina: Qual’è il tempo ideale da trascorrere in questa mostra per tornare a casa veramente più nutriti?

Paola: Direi che almeno tre quarti d’ora, un’ora ce li devi mettere. Spero che tanti bambini vengano e che siano ispirati perché alla fin fine il design tra una quarantina di anni andrà come la fisica, ci sarà il design teorico e quello applicato e si trasmetteranno conoscenze a vicenda.

Cristina: E l’aspetto sociale come lo hai declinato?

Paola: Per esempio […] pensò a questo recupero di mais di speci che erano andate perdute e poi usare le barbe e la parte esterna della pannocchia per fare un’intarsio. Anche semplicemente quest’attività che il design può fare per recuperare cultura materiale che si è persa, c’è un grandissimo esempio anche di come si può utilizzare la comunità.

Cristina: Come definisci il designer del XXI secolo?

Paola: Tantissime possibilità di espressione. Per cominciare ci sono i mobili, ovviamente ci sono le auto, ci sono anche i materiali. Ci sono dei designer che progettano scenari o cercano di mostrarci quali potrebbero essere le conseguenze future delle nostre scelte di oggi. Ci sono designer di interfacce che sono per esempio lo schermo e l’interazione del bancomat. Ci sono designer che fanno bio-design, quindi si occupano anche di organismi viventi o progettano con organismi viventi. Neri Oxman e Mediated Matter Group stanno ispirando una generazione di designer che imparano a lavorare con la natura per fare oggetti ed edifici che crescono invece di essere disegnati dall’esterno. Skylar sta lavorando il governo delle Maldive per fermare l’erosione delle spiagge. Stanno tutti lavorando e avendo un grande impatto. Sono molto fiera di tutti.

Cristina: Grazie Paola. Non perdete Broken Nature.

In onda 6-4-2019